La morte diventa poesia, purifica, rendi vivi coloro che sono stati morti in vita. Una morte che dà dolore ma poi si trasforma in pura delicatezza, si amalgama nei sentimenti dell’essere umano fino al punto che vita e morte si confondono in un abbraccio di resurrezione e pace. Questo è ciò che emerge dalle lettura di “Dies Natalis”, un’opera che immediatamente incuriosisce, fa riflettere, alle volte sorpresi, alle volte perplessi, altre ancora estasiati da parole così magistralmente attorniate di passione e di una forte trepidazione incorporea. Mentre, tuttavia, i concetti alla base dei componimenti di Cinzia Cavallaro tendono “all’impalpabile”, il messaggio si riflette come un raggio di sole su di uno specchietto. E torna a noi, in tutta la sua delicatezza e inevitabile tenera tristezza. Il calore del focolare di cinquanta o forse più anni fa rivive nel nostro ego fatto di corse che non portano a nulla, di una vita vuota, spoglia, misera, che onora la Mammona facendosi vanto di ciò. L’autrice non vuole urlare sofferenza, non desidera scioccare il lettore con parole finte e confezionate ad arte, a “industria”. Questa poetessa ha intenzione di far sì che chi legge giunga a questo in maniera autonoma, accostandosi alla pena in maniera spontanea, facendo luce all’interno di sé, semplicemente ricordando, fermandosi un attimo e centellinando una silloge che brilla di una originalità che non è sperimentalismo, ma soltanto la voce di un’anima sognatrice, acuta e spettatrice attenta di non una ma tante realtà messe insieme: Siamo pane per / i vermi / e concime per / i fiori / liquame / di dolori / e stelle / di sorrisi. Cinzia non ha paura di colpire e scolpire il foglio bianco con parole decise, inflessibili: Un languore di morte / mi scuote le vene / e sotto il tempo che preme / il cuor mi si spappola. Ciò che dà maggiormente da pensare riguardo questa raccolta è la giustapposizione di versi duri e penetranti accanto ad altri tenui e “leggeri”: pane francese fragrante / appena sfornato / profumato / tuffato nel caffelatte / e nella tranquillità / di un pallido sole / settembrino. Anche in questo caso, tuttavia, il pane diventa quasi il portatore sano di un dolore che non emerge del tutto, e che scaturisce, prende “energie” dal rimorso, da un passato che ci si rammarica d’aver perduto: Tempi di porte aperte / e fiducia / e sorrisi / e bontà perduta / e mai più ritrovata. Ecco che anche un pane “caldo e fragrante” nasconde in sé quel dolore che, come scritto all’inizio, non vuole essere “urlato”, ma semplicemente avvicinare ognuno di noi a quelli che possono essere i nostri patimenti più nascosti, reconditi oppure che riteniamo di poco conto, pur avendoci in realtà condotto verso un presente che non possiamo né vogliamo accettare, e che non ci dona felicità, se non apparente. Concludo con l’inizio di una delle poesie che meglio rappresenta il concetto esposto inizialmente in questa recensione: I fiori / ai morti / bisogna portarli / come se fossero vivi. Cinzia Luigia Cavallaro sa esplorare bene l’umanità, ma non si limita a sondare l’ovvio, né indugia nei classici assiomi legati al sentimento (spesso altamente banalizzato da tanti altri poeti) della perdita. Va oltre, e ci fa capire, alla fine, che realmente esiste qualcosa “oltre”. Nella vita, come nella morte: Ah no! / questi angeli / più non sono / dipinti astratti / ma presenze vive / della carne che passa / e ritorna / nuova. Ora ho concluso sul serio. Non potevo omettere di citare questa poesia.
Recensione di Dies Natalis pubblicata su Galassia Arte il 13/01/2011 a cura di Andrea Mucciolo